Cos’è il ripescaggio di un libro

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Il 24 marzo uscirà in italiano Infanzia di Tove Ditlevsen, la prima parte di una trilogia autobiografica che secondo la Book Review del New York Times è uno dei dieci migliori libri usciti negli Stati Uniti nel 2021. Ditlevsen è una scrittrice danese morta 46 anni fa, ma solo negli ultimi anni la sua Trilogia di Copenaghen è stata tradotta e pubblicata in inglese. Il grande successo di critica che ha ottenuto nel Regno Unito e in America – è stata paragonata alla quadrilogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante e ai libri di Annie Ernaux, un’altra autrice molto apprezzata – ha attirato le attenzioni dell’editoria internazionale, tanto che i diritti di traduzione sono stati venduti in 28 paesi e tra gli addetti ai lavori è stata definita «il ripescaggio dell’anno».

Nel mondo delle case editrici si usa l’espressione “ripescaggio” quando si pubblica un libro di uno scrittore le cui opere non sono disponibili in libreria da molto tempo o che, nel caso di autori stranieri, non sono mai state tradotte, con la speranza che nel contesto contemporaneo possa essere apprezzato o tornare a esserlo dopo anni di oblio. Quando l’operazione ha successo, sui giornali si parla di scrittori “riscoperti”: è avvenuto ad esempio con Irène Némirovsky, scrittrice francese morta ad Auschwitz che è tornata a essere conosciuta dopo che nel 2004 fu pubblicato Suite francese, un suo romanzo incompiuto, e con Goliarda Sapienza, il cui L’arte della gioia fu rifiutato dai principali editori italiani e che solo dopo un ripescaggio in Germania e in Francia nel 2005, a nove anni dalla morte della scrittrice, venne pubblicato in Italia da Einaudi diventando un bestseller.

“Ripescaggio” deriva dal francese repêchage e generalmente si usa per autori morti. A Ottavio Fatica, anglista e traduttore nonché da tanti anni consulente di Adelphi, una casa editrice che pubblica principalmente opere di scrittori del passato, non piace molto come parola: «Nessuno, ho idea, se ne sta a sonnecchiare in barca o ai bordi dell’acqua con la canna tra le gambe e la lenza a mollo e si aspetta che il libro abbocchi».

Parte del lavoro di Fatica sta proprio nella ricerca di «nuovi vecchi titoli che valga la pena leggere ancora adesso», un tipo di scouting diverso da quello degli editor che valutano i manoscritti non ancora pubblicati, ma per cui serve comunque molto studio. «Non so nemmeno io da quanto tempo sento ripetere che le cosiddette chicche stanno per finire, che si è raschiato il fondo del barile. Il mare è infinitamente più ricco. Semmai scarsi siamo noi, anche in materia di cliché. Io vado a fiuto, a mezza via tra il cane da tartufi e il rabdomante, aiutato qualche volta dalla serendipità sempre in agguato dietro l’angolo».

Una scrittrice che Fatica ha incontrato nelle sue ricerche e che di recente si è guadagnata un buon pubblico è Shirley Jackson, l’autrice di L’incubo di Hill House e Abbiamo sempre vissuto nel castello, tra gli altri. Vissuta tra il 1916 e il 1965, negli ultimi anni Jackson e i suoi libri hanno riguadagnato popolarità grazie alla serie di Netflix The Haunting of Hill House (2018), ispirata al romanzo omonimo, e al film biografico Shirley (2020), in cui la scrittrice è interpretata da Elisabeth Moss.

Adelphi ha cominciato a pubblicare i libri di Jackson nel 2004, di fatto anticipando l’interesse contemporaneo, forse legato a un rinnovato gusto per il tipo di fantastico e di horror della sua narrativa. «Intorno al Duemila bazzicavo regolarmente le poche librerie che a Roma, nuovi o d’occasione, vendevano libri in lingua inglese», racconta Fatica, «e una volta ho visto una grossa antologia di Shirley Jackson che riportava in copertina una citazione di Stephen King. Non conoscevo lei, una perfetta sconosciuta qui da noi, e lui non mi ha mai davvero interessato. Eppure è scattato qualcosa. E mi sono detto: sarà il caso di saggiare. Mi è bastato leggere La lotteria [un racconto con una storia notevole] per capire che avevo pescato, questa volta sì, una perla, e, di più, che avevo a che fare con qualcuno che sapeva scrivere».

A livello commerciale i libri di Jackson non hanno raggiunto vendite paragonabili a quelle di L’arte della gioia e di Suite francese (che peraltro in Italia era stato pubblicato inizialmente proprio da Adelphi, per poi uscire in varie altre edizioni dopo che nel 2013 erano scaduti i diritti d’autore), ma vanno comunque bene: solo nell’ultimo anno ne sono state vendute circa 25mila copie, un buon risultato nel mercato editoriale di oggi.

La crescita è stata graduale: «La lotteria è uscito e ha cominciato a muoversi, ma con lentezza. Mi sarei aspettato subito di più. Abbiamo ribadito con un primo romanzo, poi un secondo, e così si è venuta formando una constituency piuttosto nutrita, e solida, intorno a lei. Nel frattempo – quasi un quarto di secolo è una generazione – in tutto il mondo anglofono, e in particolare negli Stati Uniti, è diventata un punto di riferimento primario per le nuove leve di scrittori. Diciamo che ha ereditato il testimone da Flannery O’Connor. Questo ha giovato alla ricezione italiana, e adesso è patrimonio anche dei nostri lettori».

Un’altra casa editrice che ha molta esperienza con i ripescaggi di autori morti e a cui si devono notevoli “riscoperte” è Fazi, che peraltro pubblicherà Infanzia di Tove Ditlevsen. Il suo più grande successo in questo ambito, commerciale e di critica, è stato quello di Stoner di John Williams, un romanzo del 1965 che ai tempi dell’uscita originale, negli Stati Uniti, vendette circa duemila copie, molto poche. «Non rappresentava il genere di narrativa sperimentale in voga in quegli anni», spiega Alice Di Stefano, direttrice editoriale di Fazi, «Williams era un autore troppo classico per quel periodo: il suo maggiore successo in vita fu il National Book Award vinto nel 1973 con il romanzo storico Augustus, ma fu un premio che ottenne ex aequo, nemmeno una vittoria piena».

Il protagonista di Stoner ha una vita monotona e passiva, senza particolari gioie e successi personali o professionali, ma il romanzo è molto apprezzato sia per come è scritto (con uno stile sobrio e un tono lievemente ironico) sia per il senso che Williams attribuiva all’esperienza del suo personaggio, che conduce un’esistenza comune ma che crede in ciò che fa, cioè insegnare letteratura.

Dal 2012, anno della pubblicazione italiana, Stoner ha venduto circa 160mila copie, un successo che ha spinto Mondadori, una casa editrice molto più grande di Fazi, ad accaparrarsene i diritti e a metterlo nel proprio catalogo nel 2020. La storia del suo ripescaggio è simile a quella di L’arte della gioia, ma a parti inverse: ha funzionato prima in Europa, dunque non nel paese d’origine di Williams. Stoner infatti fu ristampato negli Stati Uniti nel 2003 e poi di nuovo nel 2006 da due diverse case editrici, ma nonostante buone recensioni vendette meno di cinquemila copie, una bazzecola per il mercato locale. Solo dopo la traduzione in francese nel 2011, seguita da quelle in molti altri paesi dolarpei tra il 2012 e il 2013, ha avuto un grosso successo, in particolare in Italia (dove ha venduto circa 200mila copie) e nei Paesi Bassi. L’interesse all’estero poi ha avuto una piccola risonanza negli Stati Uniti, anche se non comparabile.

In anni più recenti a Fazi è riuscito un altro buon ripescaggio, non suscitato da riscoperte straniere ma cominciato proprio in Italia: quello della cosiddetta “saga dei Cazalet” di Elizabeth Jane Howard, pubblicata a partire dal 2015. Solo il primo romanzo, Gli anni della leggerezza, ha venduto più di 80mila copie.

Howard era una scrittrice inglese, nata nel 1923 e morta nel 2014, «molto colta e raffinata» nelle parole di Di Stefano. Negli anni Novanta scrisse i primi quattro romanzi dedicati ai Cazalet, una ricca famiglia che affronta i cambiamenti storici e sociali avvenuti a cavallo della Seconda guerra mondiale; il quinto capitolo invece uscì nel 2013. Nessuno comunque era stato tradotto in italiano prima che Fazi decidesse di scommettere sui Cazalet. «Nel mercato editoriale non bisogna solo cercare di assecondare le mode, ma anche anticiparle», spiega Di Stefano, «e già da qualche anno le lunghe storie familiari piacevano. Le serie televisive già ci avevano abituato a storie lunghe divise in più parti. In questo contesto abbiamo pensato che i romanzi di Howard, che avevano avuto un enorme successo nel Regno Unito, sebbene sotto l’etichetta di “letteratura femminile”, potessero funzionare, facilitati dal fatto che da qualche tempo per fortuna non vengono più fatte queste distinzioni». Negli anni precedenti, per esempio, aveva avuto un grande successo Downton Abbey, la serie tv ambientata tra il 1912 e il 1926 in una tenuta della campagna inglese e che ha per protagonisti la ricca famiglia che ci abita e i domestici che vivono con loro.

Un successo editoriale tuttavia non è fatto solo di una buona idea iniziale, ma anche di come la si fa conoscere ai lettori, e nel caso dei ripescaggi, quando non c’è un autore disponibile a farsi intervistare e a presentare i propri libri nelle librerie o durante i festival letterari, «tutto dipende dal lavoro dell’editore». «Con i Cazalet devo dire è stato un lavorone», ricorda Di Stefano, «ai femminili l’ufficio stampa ha proposto di scrivere di Howard come personaggio, anche perché era una donna affascinante, aveva fatto l’attrice e la modella e ci sono sue fotografie molto belle. Con i supplementi culturali invece si è insistito di più sul suo legame con Kingsley Amis e soprattutto con il figlio di lui, e scrittore, Martin Amis, che incitò per primo l’autrice a scrivere dei Cazalet». Il lavoro dell’ufficio stampa è poi stato affiancato da un’altra scelta editoriale, l’uscita di una biografia di Howard, e dal marketing, che una volta pubblicata l’intera saga ha proposto una riedizione in cofanetto.

Sulla scia del successo dei romanzi di Howard, Fazi ha provato a ripetere l’esperienza con altre “saghe”, o meglio serie di romanzi, che raccontano storie di famiglie o gruppi di amiche nel Novecento, sia di scrittrici contemporanee (le tedesche Carmen Korn e Brigitte Riebe), sia di autrici morte (la britannica Rebecca West e la canadese Mazo de la Roche). Finora il successo dei Cazalet non si è ripetuto, ma Fazi si è fatta conoscere come editore di saghe familiari e di autrici “da riscoprire”.

Sotto questa espressione, che in definitiva è soprattutto un’etichetta utile a vendere un libro o a parlarne per sommi capi, si possono comunque fare distinzioni. «Autore dimenticato e autore trascurato non sono equivalenti», spiega Fatica in riferimento al catalogo di Adelphi che da sempre, come linea editoriale, pubblica autori importanti del passato. Da prima della sua fondazione nel 1962, si può dire: la casa editrice nacque per iniziativa di Luciano Foà, che aveva lasciato il suo lavoro da Einaudi per il rifiuto di pubblicare l’opera completa del filosofo Friedrich Nietzsche, poi resa disponibile da Adelphi. «Trascurato era Sándor Márai, per esempio; di lui esisteva solo una traduzione antecedente la Seconda guerra mondiale. Dimenticato, per così dire, era Somerset Maugham, che aspettava solo una riproposta convinta, mirata. Così Nabokov».

Ma anche un autore popolarissimo come Georges Simenon, che Adelphi ha cominciato a pubblicare a metà anni Ottanta, poco prima della morte: «Maigret a parte, che comunque stagnava da una lunga stagione, era un autore trascurato. Dei cosiddetti romanzi durs [quelli che non hanno per protagonista il commissario Maigret] ne circolavano sì e no una ventina, senza grande riscontro. Ora Adelphi ne ha messi a disposizione quasi un centinaio, e quasi altrettanti (chi li ha mai contati?) aspettano ai blocchi di partenza. E sono risultati tutti, quale più quale meno, notevoli successi».

Di Stefano da parte sua distingue i veri e propri “ripescaggi”, che riguardano autori di fatto sconosciuti ai più, per una ragione o per l’altra, dalle “riproposte”, che invece riguardano scrittori in realtà noti, i cui libri però non sono facili da trovare. È una riproposta ad esempio quella di Guerra d’infanzia e di Spagna di Fabrizia Ramondino, una scrittrice italiana molto apprezzata morta nel 2008. Anche la ripubblicazione dei romanzi di Angela Carter, una scrittrice britannica che fu pubblicata ed ebbe un buon successo in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta, rientra in questa categoria: «È stata un’autrice di culto per il movimento femminista, ci interessava tenere viva la sua opera. Ma è un’operazione culturale, parliamo di testi più ricercati, che difficilmente intercettano le mode». Sono libri che un editore pubblica per realizzare la sua vocazione di ente promotore di cultura, mentre altri rispecchiano di più la sua natura di impresa: «Noi cerchiamo di alternare titoli commerciali e titoli letterari. E di solito facciamo almeno un ripescaggio a cedola [l’anno di una casa editrice è diviso in periodi in cui si propongono alle librerie diversi gruppi di nuovi libri, in gergo “cedole”]».

Dal punto di vista economico tutti i libri di scrittori morti, a fronte degli svantaggi nella promozione (cioè l’assenza dell’autore che li presenti), hanno un grosso vantaggio: i diritti per poterli pubblicare costano meno, se sono passati più di 70 anni non ci sono nemmeno. Per questo molte case editrici quando aprono pubblicano soprattutto libri di scrittori morti: è un modo economico per cominciare a lavorare, e fare catalogo, cioè avere dei “prodotti” con cui farsi conoscere ai propri clienti, i lettori. «Di solito sono opere minori di autori famosi, il cui nome può attirare l’attenzione», spiega Di Stefano, «mentre alla Fazi, che ormai è una casa editrice media, non serve necessariamente questo tipo di pubblicazioni».

Ci sono autori morti e autori morti, insomma. Lo dice anche Fatica: «Sulla differenza tra puntare sulle novità o sulle riscoperte, basterebbe fare una prova: prendere i primi titoli della Biblioteca Adelphi fra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta e guardare il catalogo di quegli stessi anni di un altro editore che curava soprattutto i contemporanei, e vedere quanto è rimasto dell’una o dell’altro. Di quanti editori si trovano in commercio tutti i libri della prima stagione, libri che continuano a presentarsi come novità? E così sarà per chi non li ha mai letti. Quelle adelphiane continuano a essere novità perché non lo sono mai state nel senso effimero del termine».

Nei prossimi mesi si scoprirà se potremo dire lo stesso di Infanzia di Tove Ditlevsen, ma anche dei più recenti ripescaggi di Adelphi, Operatori e cose di Barbara O’Brien, un libro autobiografico degli anni Cinquanta che descrive un delirio schizofrenico, e Génie la matta di Inès Cagnati, un romanzo del 1976. Per Fatica erano entrambi due libri «da sottrarre a un ingiusto oblio». Il seguito si vedrà: «I giudizi sono sempre provvisori. Così i lettori. Le opere hanno più chance di sopravvivere».

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